venerdì 5 giugno 2009

Non solo parole

… la parola è un potente signore che, pur dotato di corpo piccolissimo e invisibile
compie le opere più divine.
Elogio ad Elena, Gorgia da Lentini - V secolo A.C

Un qualsiasi moderno messaggio pubblicitario non usa un solo linguaggio, tantomeno un linguaggio della pubblicità. A comporre il messaggio, il “testo”, concorrono diversi linguaggi, diversi codici e canali: musica e canzoni, dizione e intonazione, volume e rumori, colori e cromie, lettering, dimensioni degli elementi visivi e loro posizione reciproca (equilibrio fra pieni e vuoti), segno grafico o fotografico, fotonarrazioni o fumetti, mimica, gesti e prossemica, scenografie, inquadrature, montaggio, cartoni animati, computer graphics, riprese dal vero, registro e tono di voce, ambientazione, testimonial, costruiscono intorno al testo verbale un co-testo che contribuisce a dare senso compiuto al messaggio
La parola, il testo verbale del messaggio pubblicitario, il classico copy, è solo una componente, spesso minima, della comunicazione pubblicitaria. Allora che senso ha continuare ad analizzare la lingua, di fronte a messaggi verbali sempre più scarni e meno protagonisti?
Nel suo ruolo attuale, definito da alcuni "ancillare", non solo la parola non perde dignità, ma diventa addirittura più strategica, perché la parola è frutto di una scelta sempre più consapevole e meditata: quanto più i linguaggi utilizzabili in un messaggio sono molteplici, tanto meno le loro combinazioni sono casuali. Come il consumatore moderno è più evoluto e adulto perché più consapevole delle dinamiche del mercato, come l’estensione dell’arena competitiva costringe i competitors a migliorare sempre più la loro offerta, così accade anche nella pubblicità: la competizione e l’ampia possibilità di scegliere non solo che cosa dire e a chi, ma anche i canali, i mezzi, i linguaggi, gli stili, rendono il mondo della pubblicità più adulto.
Da una pubblicità che, per farsi ricordare, doveva puntare quasi tutto sulla lingua, siamo di fronte ad una pubblicità costosa, che può far sempre più leva sul mai visto, ridimensionando il ruolo della parola.
Forse l’unico caso di completa assenza di parola si può riscontrare nelle teaser campaigns, in cui il prodotto, il suo uso e il marchio vengono taciuti, dove il messaggio è volutamente criptico e incompleto, anche di firma (il marchio, appunto), semplicemente per creare attesa. Tuttavia, anche questo caso non fa che dimostrare l’ineliminabilità del linguaggio verbale per ancorare il messaggio o per renderlo pienamente efficace. Come qualsiasi messaggio, anche quello pubblicitario ha un preciso obiettivo da raggiungere: se non lo raggiunge, non è un buon messaggio, indipendentemente dalla sua spettacolarità o qualità artistica. L’obiettivo reale del messaggio pubblicitario è invitare all’acquisto, o meglio, fissare nella mente del potenziale cliente il marchio e il prodotto così che il cliente li ricordi nel momento dell’acquisto. Non ha rilevanza la qualità estetica, importa solo l'efficacia. E l’efficacia si misura in numeri: in notorietà, in vendite, in fatturato. Qualche anno fa (forse una decina d'anni fa, ormai), uno spot apriva la scena con un litigio di una giovane coppia. Un vicino di casa della coppia, alle prese con i piatti da lavare, in guanti di gomma e grembiule, ascoltava dal suo appartamento le urla: lei diceva che sarebbe uscita con il primo che avesse incontrato. Un attimo dopo, un fotogramma dopo, lei apriva la porta e il giovane vicino, ancora in guanti di gomma e grembiule, compariva sulla soglia con un sorriso smagliante e suadente “buonaseeera”.
La gag conquistò e fece dimenticare che il seguito del messaggio diceva “cogli l’attimo” e invitava ad approfittare dell’offerta per acquistare una Fiat. Tutti facevano il verso allo spot - persino la seconda puntata dello spot e la solitaria particella di sodio di acqua Lete- nessuno ricordava il marchio. La storia e il modo di raccontarla avevano preso il sopravvento. Ma la storia, il personaggio o uno qualsiasi degli elementi che compongono il messaggio, non possono essere così prevalenti da distrarre il destinatario dall’obiettivo ultimo del messaggio: non l’arte, non lo stupore, non l’emozione, non il divertimento, non l’informazione fine a se stessi, ma l’acquisto.
(ne parlo anche in I mestieri della parola, Cleup, Padova 2008)