martedì 23 giugno 2009

come si scrive?

Oggi ho trovato un'altra chicca a pagina 172 del libro.

Il maestro magro, ormai non più magro perché di ruolo in una scuola di Torino, legge agli allievi un brano tratto da un ritaglio di giornale:

- “Da Partanna o Santa Margherita Belice, unico è lo spettacolo che ti si proietta allo sguardo! Tu resti conquiso e sospiri quell’incontro e lo affretti, quando, nel perenne divenire degli eventi, brami una stasi alle diuturne fatiche per molcire le ambasce del cuore o per arrestare, ancora un istante, il vorticoso corso della vita!” Si fermò un attimo: “Bello?”
- “Sì, signor maestro!”
- “Bruttissimo!” troncò lui ripiegando l’articolo ritagliato da una vecchia copia del “giornale di Sicilia”. “Ma come: vi ho spiegato mille volte che non è così che si scrive! … scrivete semplice, semplice, semplice. Tagliare, tagliare, tagliare!”»

Gian Antonio Stella, Il maestro magro, Superpocket R.L.Libri srl, Milano 2007



lunedì 22 giugno 2009

pubblicità maestra di lingua

Oggi ho tovato qualcosa di interessante.
Sto leggendo Il maestro magro di Gian Antonio Stella, un romanzo ambientato nell'Italia del dopoguerra, popolato di personaggi umili e animato da episodi drammatici, ironici, divertenti.


A metà di pagina 62, intravvedo la parola "pubblicità" che poco ha a che fare con le storie raccontate. Torno allora indietro di tutte le righe necessarie a capire il senso di questo quasi anacronismo e rileggo con più attenzione. Il maestro, messa insieme la sua classe di analfabeti e ottenuto lo stipendio ridotto a cui ha diritto per una vecchia legge forse fascista, racconta ad Ines:
-Sai cosa faccio spesso? Uso i giornali. Ma i miei scolaretti, anche quelli di sessant'anni come la suocera di Nane, sono per un verso adulti, per un altro bambini. Parlano solo il dialetto, conoscono solo a orecchio poche parole di italiano, non ascoltano la radio... Così finisco per ripiegare su testi della pubblicità. Gli unici che, per vie misteriose, entrano anche in casa loro. Gli unici di cui conoscono tutte le parole.
- [...]
- Ieri ho fatto il dettato con l'Ovocrema. Hai presente quella pubblicità con l'ovetto che ha la corona da re, il monocolo, il panciotto e fuma il sigaro mostrando un anellone che luccica? Vorrei vedere la faccia di uno che la vedrà in qualche vecchio ritaglio nel Duemila! "Il signor Uovo è diventato ricco a forza di essere caro e vi guarda dall'alto in basso. Abolite le uova e provate Ovocrema che sostituisce otto rossi d'uovo e costa poche lire. Torte, ciambelle, budini, creme e squisite tagliatelle." Non ti dico il dibattito. Col Moro che bestemmiava, "sacranòn", che lui le uova delle sue galline le vende per una miseria e poi le ritrova al mercato di Porto Tolle (le sue uova! le sue uova!) [...] Insomma, del dettato, della grammatica, di "come" si dovesse scrivere non interessava a nessuno.
da Gian Antonio Stella, Il maestro magro, Superpocket R.L.Libri srl, Milano 2007
Assaggia un po' di Stella nel suo primo romanzo, leggi il suo forum, guarda le immagini d'epoca e i video Luce.

mercoledì 17 giugno 2009

effetti dell'Assemblea Nazionale Ferpi

Lo scorso venerdì 12 giugno ho partecipato all'Assemblea Nazionale Ferpi, quest'anno elettiva. (foto tratta dal sito Ferpi)
Come sempre accade, per chi non è direttamente coinvolto nell'organizzazione, non fa parte di esecutivi o di qualche lista elettorale, occasioni come queste hanno un significato "intimo". Il senso della partecipazione ha un valore emotivo: relazionale e motivazionale.
Relazionale perché è occasione di reincontrare amici e colleghi più o meno vicini, approfondire la conoscenza, aggiornarsi, scambiare esperienze.
Motivazionale perché proprio la relazione con i colleghi muove alcune riflessioni e osservazioni sul proprio lavoro di relatore pubblico, sulla comunicazione più in generale.

Le riflessioni nate e rinate in questa occasione sono 2:

1.
La comunicazione è relazione, sempre. Anche l'informazione.
Non credo alla differenza fra
comunicazione e informazione intese come comunicazione bidirezionale, la prima, e unidirezionale, la seconda. Credo che nessuno ormai ci creda più. La differenza sta semplicemente negli obiettivi: sono gli obiettivi che determinano in via definitiva la natura e la forma dell'atto comunicativo. Sono gli obiettivi che guidano la scelta delle argomentazioni, delle modalità, dei mezzi, dei codici, dei linguaggi.

Posto che ogni atto comunicativo implica sempre la relazione, è la messa in comune di un pensiero, un'informazione, prevede l'ascolto dell'interlocutore, la ricerca del feed-back, la verifica che la risposta dell'interlocutore sia conforme a quella voluta, l'informazione è un atto comunicativo che ha come obiettivo la trasmissione di una
notizia. Chi informa deve quindi mettere in comune la notizia e verificare la risposta dell'interlocutore: se l'interlocutore non comprende (o non ricorda, o interpreta) il messaggio, l'atto comunicativo è fallito. Non basta dire, bisogna farsi capire (e ricordare).

C'è chi sostiene che la differenza fra comunicazione e informazione sta nelle premesse, nella fase preparatoria dell'atto comunicativo: la
verifica della fonte.
Io credo che la verifica della fonte sia un elemento
modale, non strutturale, e che realizzi quindi una modalità relazionale e comunicativa soggettiva: rappresenta una componente etica dell'atto comunicativo, ne condiziona l'aspetto relazionale (il tipo di rapporto fra gli interlocutori), ma non preclude il pieno raggiungimento dell'obiettivo comunicativo. Credo infatti che la verifica della fonte, come la verità dei contenuti di una qualsiasi comunicazione, sia un pre-requisito ineliminabile di un atto comunicativo etico e responsabile.

2.
Le forme della relazione e della comunicazione sono diverse e diverse le competenze dei comunicatori. Non tutti sappiamo fare tutto. Come la gestione delle crisi, il gorel, le relazioni con la stampa, gli eventi, il lobbying, anche il
public speaking è una specializzazione, una "disciplina" di comunicazione. E noi relatori pubblici troppo spesso trascuriamo di formarci ed esercitarci in questa disciplina. Magari semplicemente perché siamo molto bravi in altro. Come quasi sempre accade ai professionisti di qualsiasi settore: il calzolaio gira con le scarpe rotte, la sarta senza un bottone.

Parlare in pubblico non è facile. Non è facile attirare e mantenere l'attenzione di una platea disomogea e magari indifferente agli argomenti che proponiamo. Non è facile con-vincere, coinvolgere, comunicare. Ammettiamo, io per prima, di non essere capaci di farlo e allora cominceremo a farlo veramente bene.

Fortunatamente la perizia non consegna il diritto alla parola, né l'imperizia determina l'interdizione al microfono. Ma, dal momento che "non si può non comunicare", meglio farlo bene.

Mi iscriverò al prossimo corso di public speaking.

venerdì 5 giugno 2009

La rivincita della parola in pubblicità: la direzione

Studiare la lingua della pubblicità è come analizzare il modo di parlare di una persona: ciascuno di noi comunica usando diversi canali, verbali (la lingua e la parola, appunto), para-verbali (il tono di voce, il volume, il ritmo) e non verbali (i gesti, i comportamenti, le espressioni del viso, la postura, il respiro, le scelte nell’abbigliamento, la pettinatura, gli accessori). Ascoltando le scelte e i modi della comunicazione di ciascuno è possibile conoscerlo meglio e comprendere con più certezza le sue intenzioni comunicative.

Mentre la comunicazione verbale trasmette prevalentemente informazioni, quella non verbale trasmette soprattutto stati d’animo. La comunicazione non verbale è quindi in gran parte ‘comunicazione all’inconscio’ e usa un linguaggio analogico diverso da quello logico della comunicazione verbale. Trasferendo questo concetto sul messaggio pubblicitario, ne deduciamo che la pubblicità moderna, prevalentemente non verbale, sceglie di parlare al nostro inconscio.

Per questo motivo la presenza della parola nella comunicazione pubblicitaria ha un motivo preciso, così come la sua assenza. Anche il silenzio invia un messaggio. Uno spot, ai suoi tempi pioniere, recitava, dopo alcuni secondi di assenza di parola: "Silenzio. Parla Agnesi." Era una scelta comunicativa strategica, funzionale alla parola stessa: la parola era la direzione, l’interpretazione, l’invito all’azione.
Mc Donald’s invece, qualche anno fa, usava in un suo spot una tattica diversa: la voce fuori campo enunciava una serie di regole di comportamento che solitamente gli adulti propinano ai bambini ("non si deve giocare a tavola", "non si mettono i gomiti sul tavolo") e poi, in una sala affollata, le scene illustravano come, in un Mc Donald’s, queste regole si possano allegramente disattendere.


In entrambi i casi la parola e gli altri linguaggi usati sono assolutamente inseparabili, complementari. Le parole sono “strumenti che agiscono come catalizzatori del processo motivazionale”, ma non sono il mezzo vero e proprio: per motivare un potenziale acquirente occorre rivolgersi alla sua mente inconscia, muovere associazioni mentali e provocare reazioni irrazionali. Le parole perciò orchestrano gli elementi che compongono il messaggio e, proprio come un direttore, possono non essere la causa scatenante dell’emozione dell’uditorio, ma ne hanno quasi sempre la regia.



(ne parlo anche in I mestieri della parola, Cleup, Padova 2008)

Non solo parole

… la parola è un potente signore che, pur dotato di corpo piccolissimo e invisibile
compie le opere più divine.
Elogio ad Elena, Gorgia da Lentini - V secolo A.C

Un qualsiasi moderno messaggio pubblicitario non usa un solo linguaggio, tantomeno un linguaggio della pubblicità. A comporre il messaggio, il “testo”, concorrono diversi linguaggi, diversi codici e canali: musica e canzoni, dizione e intonazione, volume e rumori, colori e cromie, lettering, dimensioni degli elementi visivi e loro posizione reciproca (equilibrio fra pieni e vuoti), segno grafico o fotografico, fotonarrazioni o fumetti, mimica, gesti e prossemica, scenografie, inquadrature, montaggio, cartoni animati, computer graphics, riprese dal vero, registro e tono di voce, ambientazione, testimonial, costruiscono intorno al testo verbale un co-testo che contribuisce a dare senso compiuto al messaggio
La parola, il testo verbale del messaggio pubblicitario, il classico copy, è solo una componente, spesso minima, della comunicazione pubblicitaria. Allora che senso ha continuare ad analizzare la lingua, di fronte a messaggi verbali sempre più scarni e meno protagonisti?
Nel suo ruolo attuale, definito da alcuni "ancillare", non solo la parola non perde dignità, ma diventa addirittura più strategica, perché la parola è frutto di una scelta sempre più consapevole e meditata: quanto più i linguaggi utilizzabili in un messaggio sono molteplici, tanto meno le loro combinazioni sono casuali. Come il consumatore moderno è più evoluto e adulto perché più consapevole delle dinamiche del mercato, come l’estensione dell’arena competitiva costringe i competitors a migliorare sempre più la loro offerta, così accade anche nella pubblicità: la competizione e l’ampia possibilità di scegliere non solo che cosa dire e a chi, ma anche i canali, i mezzi, i linguaggi, gli stili, rendono il mondo della pubblicità più adulto.
Da una pubblicità che, per farsi ricordare, doveva puntare quasi tutto sulla lingua, siamo di fronte ad una pubblicità costosa, che può far sempre più leva sul mai visto, ridimensionando il ruolo della parola.
Forse l’unico caso di completa assenza di parola si può riscontrare nelle teaser campaigns, in cui il prodotto, il suo uso e il marchio vengono taciuti, dove il messaggio è volutamente criptico e incompleto, anche di firma (il marchio, appunto), semplicemente per creare attesa. Tuttavia, anche questo caso non fa che dimostrare l’ineliminabilità del linguaggio verbale per ancorare il messaggio o per renderlo pienamente efficace. Come qualsiasi messaggio, anche quello pubblicitario ha un preciso obiettivo da raggiungere: se non lo raggiunge, non è un buon messaggio, indipendentemente dalla sua spettacolarità o qualità artistica. L’obiettivo reale del messaggio pubblicitario è invitare all’acquisto, o meglio, fissare nella mente del potenziale cliente il marchio e il prodotto così che il cliente li ricordi nel momento dell’acquisto. Non ha rilevanza la qualità estetica, importa solo l'efficacia. E l’efficacia si misura in numeri: in notorietà, in vendite, in fatturato. Qualche anno fa (forse una decina d'anni fa, ormai), uno spot apriva la scena con un litigio di una giovane coppia. Un vicino di casa della coppia, alle prese con i piatti da lavare, in guanti di gomma e grembiule, ascoltava dal suo appartamento le urla: lei diceva che sarebbe uscita con il primo che avesse incontrato. Un attimo dopo, un fotogramma dopo, lei apriva la porta e il giovane vicino, ancora in guanti di gomma e grembiule, compariva sulla soglia con un sorriso smagliante e suadente “buonaseeera”.
La gag conquistò e fece dimenticare che il seguito del messaggio diceva “cogli l’attimo” e invitava ad approfittare dell’offerta per acquistare una Fiat. Tutti facevano il verso allo spot - persino la seconda puntata dello spot e la solitaria particella di sodio di acqua Lete- nessuno ricordava il marchio. La storia e il modo di raccontarla avevano preso il sopravvento. Ma la storia, il personaggio o uno qualsiasi degli elementi che compongono il messaggio, non possono essere così prevalenti da distrarre il destinatario dall’obiettivo ultimo del messaggio: non l’arte, non lo stupore, non l’emozione, non il divertimento, non l’informazione fine a se stessi, ma l’acquisto.
(ne parlo anche in I mestieri della parola, Cleup, Padova 2008)

pubblicità: ragione e sentimento

Il mio primo incontro ravvicinato con la pubblicità coincide con un esercizio sulle figure retoriche e i giornali, il primo anno di liceo. Di lì in poi è stato amore. Imperituro.
Oggi pubblicità e retorica sono parte del mio lavoro. Che potevo volere di più?

Lo studio della lingua, della grammatica e della retorica, è uno strumento straordinariamente efficace per individuare i meccanismi della pubblicità. E, viceversa, la pubblicità mostra le nuove esigenze e i nuovi modi di relazionarsi e di comunicare.


Nei miei post condivido anche alcune riflessioni sulla comunicazione. Pubblicitaria e non. Ma sempre relazione.

giovedì 4 giugno 2009

parola chiave: MA

Il 20 marzo scorso ho partecipato a "CREATIVITÀ E COMUNICAZIONE: COME E PERCHÉ SENZA LINGUAGGIO NON C'È PENSIERO", un seminario organizzato dalla Fondazione La Fornace e tenuto da Annamaria Testa.
Avevo già avuto l'occasione di ascoltarla parlare di creatività, innovazione e invenzione, ma questa volta è stato diverso. Il mio stato d'animo era diverso. E diverso è stato il modo di riflettere sui contenuti del suo intervento: un confronto di gruppo nel laboratorio post-seminario.
La moderatrice del laboratorio ci ha incoraggiato ad evidenziare le parole chiave dell'intervento e le ha scritte in ordine casuale su una lavagna a fogli mobili. Mi è parso un giochino fin troppo infantile e ho seguito le regole del gioco con curiosità.
Qualcuno ha citato parole che anch'io avevo sentito e ricordavo, termini più o meno chiave dell'intervento:
creatività, innovazione, comprensione, ambiente, difficoltà, distruzione, semplicità, comunicazione, emozioni, scelta, cervello, conoscenza, qualità, semplicità, curiosità, bambini, passioni, cranio...
Poi qualcuno ha detto
ma. Una vibrazione: quel monosillabo ed io avevamo qualcosa in comune.

Il gioco è proseguito. Dovevamo ora scegliere le 3 parole che meglio ci rappresentavano.
Ed è successo come quando i capi squadra scelgono a turno i membri del loro gruppo, uno per volta, cercando i migliori candidati, rubandoli agli altri. Ho sentito che dovevo assolutamente avere
ma.

L'antitesi e la contraddizione sono parti importanti di me.
Ogni idea ha una 'controidea', ogni affermazione una negazione, ogni concetto un contrario, ogni visione un diverso punto di vista, con pari dignità e contenuto di verità.
Quando, da ragazzina, i miei amici si scannavano per prevalere gli uni sugli altri e mi chiedevano di prendere le loro parti, trovavo nelle loro litigate qualcosa di assurdo e inammissibile: ognuno di loro aveva ragione. Mi sentivo quasi superiore per la mia capacità di vedere le loro opinioni dal di fuori, ma invidiavo la loro capacià di infiammarsi per la loro personale visione del mondo.
Il
ma significa questo.

Le 3 parole che ho scelto erano
ma, comunicazione, emozioni.

Il gioco del laboratorio è continuato. Le 3 parole scelte da ciascuno dovevano servire da spunto al gruppo per creare per lui un claim promozionale.
Chiara e Claudio, i miei due compagni di gruppo, hanno pensato per me
una pagina di colori e idee.