lunedì 23 novembre 2009

MAIUSCOLE o minuscole ?



Nella comunicazione scritta ci sono regole e consuetidini, stili e sensibilità. Dal momento che la lingua serve per comunicare, se la scelta che facciamo comunica esattamente il nostro pensiero, le nostre intenzioni, allora è la scelta giusta. Sia che si tratti di grammatica, di sintassi, di stile, di registro, di tono di voce... e di maiuscole o minuscole.


I grammatici sostengono, abbastanza unanimemente, che deve essere usata la lettera iniziale maiuscola in questi casi:
1. dopo il punto fermo;
2. dopo il punto interrogativo (a meno che non si susseguano più domande, e la maiuscola va solo dopo l'ultimo), e il punto esclamativo;
3. dopo i due punti seguiti dalle virgolette, quando si introduce un discorso diretto;
4. con tutti i nomi propri, categoria che comprende:
- i nomi e i cognomi delle persone (un nome di persona scritto con la minuscola significa un’altra cosa; ad es. : “Sei un arlecchino" (= una persona poco seria)… "Non fare il giuda" (= il traditore)…” etc.; in questi casi il nome proprio è divenuto un nome comune il che giustifica la minuscola)
- i nomi e gli appellativi sacrali: Dio, Iddio, Spirito Santo, Vergine, Madonna, Cristo, Croce, San/Santo/Santa, ecc.;
- i nomi che indicano cariche pubbliche o autorità civili o religiose: Il Presidente della Repubblica… il Prefetto di Milano... l'Assessore all'urbanistica... il Re d'Italia... il Papa, il Vescovo, il Rabbino capo, l'Imam... (si scrive papa se segue il nome proprio: es. papa Roncalli)
- i nomi degli ordini religiosi: i Gesuiti, i Salesiani, le Orsoline, ecc.;
- le sigle: O.N.U., oppure Onu (purché scritte sempre allo stesso modo all'interno dello stesso testo e per esteso la prima volta)
- i nomi topografici via, viale, vicolo, corso, piazza, piazzale, ponte, ecc quando fanno parte integrante del nome proprio: Ponte Vecchio
- i secoli, e i periodi storici, letterari, artistici...: il Trecento, l'Illuminismo, il Romanticismo,
- i nomi geografici ed astronomici e quelli dei segni zodiacali; es.: il Mar Morto, l'Eufrate, l’Orsa Maggiore, il Leone, la Bilancia
- Sole, Saturno, Marte, la Terra... quando si indicano i corpi celesti (la minuscola negli altri casi)
- i nomi delle festività: Natale, Pasqua, Capodanno, Ferragosto, …
- i nomi dei corpi armati: Guardia di Finanza, Carabinieri, Polizia di Stato (ma : “I falsari sono stati scoperti dai carabinieri”
- le personificazioni: la Virtù, la Giustizia, la Sapienza ecc.
- i punti cardinali ed i sostantivi settentrione, meridione, occidente ed oriente quando vogliamo indicare una regione geografica: “I venti di guerra del vicino Oriente
- i nomi dei popoli, soprattutti antichi, e abitanti di regioni: i Vichinghi, i Romani (=gli antichi romani), gli Italiani, i Francesi, gli Austriaci, i Toscani, i Piemontesi... ; (con la minuscola ovviamente si scrivono invece gli aggettivi corrispondenti: “I pittori francesi sono straordinari”)
- il nome di un'opera d'arte quando è indicato con quello del suo autore: Ho comprato un Caravaggio...
- i nomi che indicano istituzioni, enti, ministeri: la Chiesa, la Regione, la Provincia, il Comune; la Presidenza della Repubblica, la Camera dei Deputati, il Consiglio dei Ministri, la il Consiglio Superiore della Magistratura
- i titoli delle opere, delle testate giornalistiche e dei periodici: I Promessi Sposi, Il Messaggero, (nella carta stampata melgio scrivere i titoli in corsivo di libri o di opere, fra virgolette queelo di testate)
5. con i numerali preceduti dalla parola anni, come nelle espressioni:
anni Cinquanta, anni Settanta. ecc.;


Per leggere che cosa dicono ancora i grammatici, non sempre concordi, rivio a:
www.novecentoletterario.it/grammatica/maiuscole.htm


E poi cito un divertente post da www.mcreporter.info/lingualessa/maiuscole.htm:

Un rigo di testo pubblicitario, in fondo a una pagina web:
"Indietro con gli Esami? Ti Aiutiamo chiedici Maggiori Info Online". Provoca una specie di nausea ortografica. Perché tutte quelle maiuscole?
L'abuso delle maiuscole è un'altra moda che dilaga. Insopportabile come il sempre più invasivo sembra essere.
Mi scrive un conoscente avvocato: "Scusa se Ti disturbo, volevo chiederTi se hai notizie della Circolare che dovrebbe essere stata approvata...".
Matita blu, egregio avvocato.
Quando non è all'inizio di un periodo, la maiuscola dovrebbe avere il senso di alzarsi in piedi quando entra una persona di riguardo. Di conseguenza l'abuso delle maiuscole rende l'idea di una specie di "ola" da stadio, che a una certa età si rivela faticosa.
[...] le grammatiche prevedono una sola eccezione: il Lei della terza persona di cortesia. Inutile salamelecco che, per fortuna, sta andando in disuso. Mentre incombe l'atroce "Vs." (per vostro), a volte nella variante "V/s", che induce a un ancora più raccapricciante "Ns." (sempre con la maiuscola, per nostro): dallo squallore della prosa commerciale alla pochezza della lingua di tutti i giorni.
Caro non-amico mio, non sei un "Avvocato", come ti firmi, ma un avvocato, un azzeccagarbugli. Non il dottor Azzeccagarbugli di manzoniana memoria.
Le maiuscole abusive fanno pensare a quegli individui di bassa statura che stanno sempre dritti in piedi, magari con le scarpe taroccate, per sembrare più alti.
Forse l'abuso delle maiuscole nello scritto può rivelare idee minuscole nella testa...

lunedì 7 settembre 2009

c'è tempo e luogo per ogni cosa: è giusto correggere l'italiano di un social networker?



Al ritorno dalle vacanze, mi ricollego alla rete e scorro curiosa i post di facebook per aggiornarmi sui miei amici. E mi succede una cosa strana: mi sento profondamente a disagio per un commento ad un post di un'amica.

Alessia scrive su facebook il 31 agosto 2009:

la mia preferita di oggi di Spinoza: "Si moltiplicano le crociate della Lega contro gli immigrati. Devono essersi rassegnati all'unità d'Italia" ma un applauso va anche a questa: Immigrazione, la Santa Sede alza la voce: "Rispettare i diritti dei migranti è un dovere delle società sviluppate". L'Italia può appigliarsi a quest'ultimo cavillo.

Le risponde Massimo il 1° settembre:

Appigliarsi..? Ma quello che ha scritto, lo sa l'Italiano? Già.. hanno dovuto fare i corsi per i diplomati, perché non erano in grado di compilare le domande di iscrizione all'università, cose Italiane... Alle cose ci si aggrappa, non appiglia...!!!!!!!
Magari sono anche quelli che vogliono l'Italia unita..!

Alquanto sorpresa della violenza dell'accusa, sebbene parzialmente d'accordo, commento:

[...]
1. lo Zingarelli 2008 non mi pare affatto d'accordo con la tua differenziazione nell'uso dei due verbi, ma potrei anche sbagliarmi...
2. sei proprio sicuro che non ci sia "dolo" nella preparazione dei moduli per le domande di iscrizione? Quante volte ci capita di rimanere interdetti di fronte ad un campo da compilare secondo un'indicazione poco chiara? ...
3. Chi li dovrebbe tenere questi corsi di italiano? ...mah...

Quindi, Massimo, sabato :

Giornalisti 2009 Palettano dappertutto, quantaltrano , Pitostano (forse credono che derivi da TOSTO), usato al posto di; oppure, e, anche, o. Per non parlare dei verbi (congiuntivi) usati a sproposito, 10 anni così e lo Zingarelli lo registra?
Io non discuto se i moduli sono o non sono corretti, ma del fatto che chi li compila non sa l’Italiano ed è diplomato, e i corsi li vogliono fare per riuscire a capire cosa hanno risposto. Certo che se li hanno redatti gli stessi laureati che, alcuni anni prima, non sapevano compilarli in Italiano corretto..!

Mi dispiace lasciare l'ultima parola ad un'invettiva sull livello di scolarizzazione dell'italiano medio, anche se la condivido, ma devo rinunciare a ribattere perché trovo il luogo inadatto. Non mi sento di condividere infatti la scelta del luogo e dei toni della denuncia.

1. questione della correzione dell'uso dei verbi appigliarsi/aggrapparsi:
La lingua del web 2.0 non è controllata, è impulsiva e colloquiale, familiare ed informale, al limite della sgrammaticatura o del gergo. Non è dunque il social network la sede più adatta per redarguire chi ha avuto a voglia e il coraggio di condividere i suoi pensieri nella forma meno controllata, come in una conversazione "in famiglia". A meno che non si tratti di un sito, blog, o "luogo" a tema.

2. questione dizionario:
Il dizionario è un tesoro sottovalutato. Riporta anche la dizione corretta, il corretto uso dal punto di vista grammaticale (coniugazioni, declinazioni, plurali, forme irregolari, concordanze...) e sintattico (reggenze: complementi e modi verbali...). Insomma per chi voglia un confronto attendibile con la lingua "corretta", il dizionario è l'interlocutore ideale.
Registra la lingua com'è e come dovrebbe essere, quindi cita usa familiari, volgari, persino usi consolidati che vanno contro le regole della grammatica normativa, quella che solitamente viene insegnata a scuola. Non so quale sia la discriminante che include o esclude un lemma da un dizionario. Ma so che l'unico riferimento che abbiamo per "correggere" il nostro italiano è, di fatto, il dizionario (non le grammatiche).

3. questione giornalisti:
Il giornalista ha un dono: quello di saper vedere o scoprire una notizia. E sa capire meglio di altri come interessare i suoi lettori. Essere giornalista non significa però ipso facto saper scrivere bene. I giornali, anzi, sono un ricettacolo di cazzate linguistiche. Ergo, l'uso giornalistico della lingua non può essere preso come riferimento dell'italiano "corretto".

4. questione moduli:
Un modulo dovrebbe servire a semplificare e uniformare una procedura. Per farlo dovrebbe essere chiaro, immediato, semplice. Essere chiari, immediati e semplici, però, non è cosa da poco. Non è rilevante chi abbia costruito, supervisionato o approvato i famigerati moduli: la discriminante per definire un modulo efficace o non efficace, è semplicemente la trasparenza, il risultato. Chi progetta un modulo, o una qualsiasi comunicazione, deve mettersi nei panni di chi li riceve. E non si può lamentare se la compilazione del modulo non è corretta se non ha fatto tutto il possibile per mettere il compilatore in condizione di comprendere le richieste e rispondere in maniera perspicua. La responsabilità dell'esito di un qualsiasi atto comunicativo (e quindi della corretta compilazione di un modulo) sta in chi l'ha progettato.

5. questione competenza linguistica:
Competenza linguistica è la capacità di un parlante di usare efficacemente la lingua, ossia in modo adeguato al mezzo, all'argomento, all'obiettivo, all'interlocutore, al contesto. Competenza significa dunque anche profonda conoscenza.
Che noi italiani non conosciamo a fondo la nostra lingua, è un dato di fatto.
Da che dipende? Forse riteniamo che, semplicemente perché comunichiamo, semplicemente perché lo parliamo, lo sappiamo usare bene. Forse perché l'italiano si scrive esattamente come si pronuncia non sentiamo il bisogno di studiarlo [ :-) ].
Parlare, comunicare, sono naturali abilità umane, come camminare, saltare, correre. Tutti impariamo gradualmente a camminare, correre, saltare, ma non tutti siamo in grado di affrontare una gara ad ostacoli o una maratona. Come per la corsa, anche per la comunicazione è necessario un costante allenamento. Che qualcuno sia più dotato di altri è innegabile, sia nella corsa che nella comunicazione, ma essere "naturalmente predisposti" non è sufficiente, né nella corsa, né nella comunicazione. Tantomento nell'uso della lingua.


P.S.

Se volessi essere cattiva, potrei correggere il correttore. Ma, dal momento che non sono cattiva e che, soprattutto, sono consapevole che sui social network si scrive come si mangia, faccio solo un esercizio:

Appigliarsi.. [i puntini di sospensione sono tre, sempre e solo tre] ? Ma quello che ha scritto, lo [questa è una "dislocazione a sinistra", caratteristica del parlato e dei registri linguistici più bassi, quindi non proprio adeguata allo scritto. Soprattutto se si tratta di una tirata sulla competenza linguistica] sa l'Italiano [la maiuscola non serve] ? Già.. hanno dovuto fare i corsi per i diplomati, perché non erano in grado di compilare le domande di iscrizione all'università, cose Italiane... Alle cose ci si aggrappa, non appiglia...!!!!!!! [ne basta uno] Magari sono anche quelli che vogliono l'Italia unita..!

Giornalisti 2009 Palettano dappertutto, quantaltrano_ [lo spazio va dopo la virgola, non prima],Pitostano (forse credono che derivi da TOSTO [sul web usare il maiuscolo equivale ad urlare: non è educato. vd netiquette]), usato al posto di; [forse intendeva usare i due punti?] oppure, e, anche, o. Per non parlare dei verbi (congiuntivi) usati a sproposito, [forse sarebbero stati più adeguati i puntini di sospensione] 10 anni così e lo Zingarelli lo registra?
Io non discuto se i moduli sono o non sono corretti [meglio il congiuntivo?], ma del fatto che chi li compila non sa l’Italiano ed è diplomato, e i corsi li [altra "dislocazione a sinistra"] vogliono fare per riuscire a capire cosa hanno risposto. Certo che se li hanno redatti gli stessi laureati che, alcuni anni prima, non sapevano compilarli in Italiano corretto..!

sabato 18 luglio 2009

il messaggio pubblicitario. 10 anni fa.

Circa dieci anni fa, dopo due anni di ricerche estenuanti ed entusiasmanti, di registrazioni e trascrizioni, scrissi 213 pagine che ho ripescato. Il titolo del lavoro suonava così: RETORICA E LINGUA DEGLI SPOT TELEVISIVI .

Oggi sono curiosa di vedere che cosa è cambiato in dieci anni. Dagli spot televisivi alla mia esperienza, al mio punto di vista. Così ho deciso di rileggere e pubblicare via via quelle pagine, prendendomi il tempo per ragionarci su. Ecco il primo capitolo.


capitolo 1

Il messaggio pubblicitario

Giorgio Raimondo Cardona nel 1974 esordiva in La lingua della pubblicità affermando: “Che chi ha qualcosa da vendere elogi la sua merce nel modo più lusinghiero non è certo cosa dei giorni nostri” (pag 5). E secondo Medici il linguaggio della pubblicità è “una forma mirata [...] che porta sempre a enfatizzare l’espressione e il significato” (pag 7).


Come dice Annamaria Testa, nome del prodotto, imballaggio e comunicazione pubblicitaria hanno la funzione di mettere in evidenza o di istituire differenze nella percezione di prodotti simili, e nel tipo di gratificazione secondaria che può derivare dal loro uso (La parola immaginata, pag. 13).

Propagandare l’unicità o la superiorità di un prodotto per indurre all’acquisto è un fine perseguibile in modo più o meno esplicito, con artifici di ordine retorico o con estrema “innocenza”. Quanto più gli argomenti diventano irrilevanti o pretestuosi, tanto più acquistano rilievo i modi.

Comunque persegua il suo fine, il messaggio pubblicitario ha due fondamentali caratteristiche: l’intenzione persuasiva, propagandistica e il tono elativo, iperbolico. La modulazione e il “dosaggio” di capacità e modalità persuasive e di intensità espressiva, inseme alla scelta dei media e dei codici o linguaggi, del tone of voice , fanno la differenza fra i vari generi di messaggio pubblicitario.

La forma assunta dal messaggio è imprescindibile dal brief, una serie di valutazioni e di indicazioni strategiche, nate da incontri fra gruppo marketing dell’azienda cliente e gruppo dirigente e account dell’agenzia pubblicitaria. Il brief non considera solo prodotto (età, vantaggi specifici rispetto a prodotti analoghi, immagine presso il pubblico, costo, distribuzione, storia pubblicitaria), scenario di mercato (concorrenti), situazione del mercato (vendite), obiettivi di comunicazione, scopo della campagna (promozione di un prodotto o lancio di un nuovo prodotto, piuttosto che allargamento del mercato o aumento della frequenza di consumo, delle occasioni d’uso), budget,
distribuzione (e piano mezzi), immagine di sé che la marca (brand) desidera diffondere, ma anche

brand positioning e brand image (posizione reale della marca nella mente dei consumatori e nelle scelte di consumo; immagine di marca,), heritage (eredità, storia, reputazione), delivery (insieme dei valori di cui la marca si fa portavoce). Sottovalutare o, peggio, disconoscere questo patrimonio di valori simbolici legati all’immagine di marca, significa snaturarne l’identità, creare confusione e incertezza nella mente dei consumatori, non sfruttare appieno le potenzialità persuasive date
dall’autorevolezza dell’oratore (in altre parole: incoerenza);

target, l’obiettivo di popolazione dei clienti, potenziali e reali, e i loro comportamenti di consumo, le loro caratteristiche identificative, il loro patrimonio mentale; gli atteggiamenti e i valori dei consumatori, le conoscenze e i condizionamenti condivisi più o meno omogeneamente dai vari clusters (gruppi
di popolazione individuati attraverso segmentazioni di tipo sociodemografico, psicografico, socioculturale) .

Come ogni altra forma di comunicazione, dunque, anche quella pubblicitaria dipende da alcune variabili:
a) funzione del messaggio,
b) mittente / emittente,
c) destinatario / ricevente,
d) contatto / canale,
e) referente / contesto,
f) codice,
g) messaggio / contenuto.

a) La funzione primaria della pubblicità è anche una sua caratteristica genetica distintiva: la persuasione. Più in dettaglio una comunicazione commerciale deve attirare e fermare l’Attenzione, suscitare l’Interesse, stimolare il Desiderio, spingere all’Acquisto (riassunti nell’acronimo AIDA).
b) Il mittente ultimo è il committente del messaggio pubblicitario, marca o prodotto, con i propri positioning, image, delivery, heritage, visual (l’immagine scelta per la comunicazione pubblicitaria, soprattutto se su stampa): l’oratore della retorica classica.
c) Non è indifferente parlare di “destinatario” e di “ricevente”: l’uditorio del messaggio pubblicitario, e dei mass media in genere, è più che mai eterogeneo e comprende un pubblico di “interessati” (chi conosce, acquista il prodotto o potrebbe farlo, chi fa uso di prodotti dello stesso genere merceologico o ne è semplicemente incuriosito) e di “non interessati”. I primi rappresentano il target group, il segmento di pubblico a cui la specifica campagna si rivolge, i destinatari del messaggio, i secondi, riceventi, sono dei contatti fuori target.
d) Il messaggio pubblicitario viene trasmesso da media (quotidiani o periodici, affissione, radio, cinema, televisione, web e nuovi media) e veicoli (singole testate, emittenti, siti) scelti opportunamente per la campagna.
e) Il contesto è indispensabile per individuare la vera funzione del messaggio, nonché il suo reale contenuto. Nel nostro caso non si deve dimenticare innanzitutto che il messaggio stesso è un prodotto in vendita “non solo perché il testo è “venduto” […], ma anche perché […] i futuri acquirenti […] non comprano il prodotto per se stesso ma per quella suggestione […] che il pubblicitario ha saputo associare e addirittura sostituire al prodotto” (Altieri Biagi 1979: 318). Il contesto sociale, economico e culturale influiscono in modo significativo sulla qualità dell’approccio pubblicitario. Il messaggio viene dunque collocato in un contesto fittizio, un’ambientazione da cui deriva il tone of voice.
f) Il codice del messaggio pubblicitario non è né unico, né univoco. Va dal sistema di segni e simboli, al linguaggio verbale, da quello iconico (foto, disegni, fotonarrazioni, fumetti, tipografia e disegno delle lettere del testo verbale) a quello sonoro (dizione, musica, rumori, canto), dal linguaggio mimico, gestuale, prossemico (nella recitazione), a quello filmico (scenografie, inquadrature, montaggio, cartoni animati, computer graphics, riprese dal vero).
g) Gli elementi fondamentali del contenuto di una comunicazione pubblicitaria sono promessa o consumer’s benefit, reason why e supporting evidence. Consumer’s benefit è il vantaggio promesso al consumatore come conseguenza dell’acquisto o dell’uso del prodotto. Per rendere credibile la promessa è necessario dotarla di un supporto razionale: una reason why, un motivo tangibile, spesso “scientifico” che spieghi la realizzabilità della promessa. Il compito di persuadere sulla verosimiglianza e importanza della promessa è affidato alla supporting evidence, l’apparato retorico o di topoi addotti come argomentazione del messaggio. Il risultato finale (end-result) può mostrare dei vantaggi aggiuntivi rispetto a quelli promessi.

Una serie di convenzioni comunicative riguardanti relazioni preferenziali tra certi contenuti e certe tecniche testuali, condivise da emittente e recettore, guidano da un lato la produzione, dall’altro l’interpretazione di un testo, identificandolo come appartenente ad un genere specifico. Pier Vincenzo Mengaldo (1994: 37-86), seguendo una partizione strutturale e insieme cronologica già presentata da Berruto (1973), distingue sei “generi” o “tipi” fondamentali di messaggio pubblicitario:

Cordiale e familiare, discorsivo; spesso ampio e ricco di elementi subordinativi ed esplicativi, caratteristico dell’epoca fra le due guerre;

Messaggio-tipo: tendente allo slogan o alla forma epigrammatica e “poetica”, con rima predominante;

Racconto poetico, che può assumere tratti della poesia d’avanguardia, nato negli anni Sessanta;

Descrizione diffusa e tecnica del prodotto, affidata alla logica delle cose e non ad altri elementi persuasivi, sia interni che esterni al messaggio, (il messaggio assume il massimo dell’informatività); di sviluppo più recente;

• Assoluto dominio dell’elemento iconico, in forma di mini-racconto;

• Combinazione di elemento iconico e musicale.

Ruggero Eugeni (in Dizionario della pubblicità di Abruzzese-Colombo 1994: alla voce “generi”) individua invece tre generi di comunicazione pubblicitaria distinguendoli in base alla “zona” del testo più direttamente coinvolta nella strategia persuasiva:


1) Se è il livello sintattico-stilistico ad essere responsabilizzato della persuasione, la strategia si basa sulla costruzione di una sorta di sineddoche tra qualità “estetica” del messaggio e qualità del prodotto, dando origine ad una comunicazione tendenzialmente “poetica” e autoreferenziale. Immagini irrealistiche, decentrate, colori anomali e antinaturalistici, inquadrature forzate, esibite, movimenti esasperatamente veloci o lenti, colonna sonora pesante e invadente compongono messaggi antinarrativi.

2) Quando la persuasione è affidata al livello semantico del testo, il messaggio rappresenta “a vista” un collegamento fra prodotti e valori. Qualità e desiderabilità del prodotto emergono “da sole” come morale ultima del messaggio che assume forma di racconto: racconto di costruzione del prodotto, racconto d’uso, racconti di
desiderio o di attesa in cui i valori del prodotto non vengono esibiti, ma narrati attraverso la descrizione del crescente desiderio del prodotto da parte di un soggetto. Questo tipo di messaggio si avvale di immagini e sonoro realistici, di sequenze lineari, e di musica di sottofondo sempre al servizio della narrazione.

3) Nel caso in cui venga usato a scopi persuasivi il livello pragmatico del testo, vengono responsabilizzati i mezzi che mettono in relazione il testo con il recettore, ossia quei personaggi che, rivolgendosi direttamente al ricevente, cercano di instaurare con lui un legame fiduciario. L’affidabilità del testimonial (il personaggio che attesta le caratteristiche positive di un prodotto, o come consumatore eccellente o come attore di una gag, e consente ai committenti di facilitare e addirittura aumentare il ricordo del prodotto) può venire dalla notorietà (casi recenti: Giulio Andreotti per un portale di accesso ad Internet, Harrison Ford per un’automobile, Madonna per una marca di cosmetici), dal prestigio dato dall’appartenenza ad alcune categorie professionali (il medico, l’atleta, il professionista), dall’identificazione con il ricevente (una mamma, uno studente, gente comune). Il carattere del messaggio si fa più argomentativo che narrativo, l’immagine diventa dettaglio, primo piano, modellino, grafico esplicativo a supporto visivo dell’argomentazione.

Complessivamente il discorso pubblicitario oscilla fra due opposte esigenze: quella di rendersi riconoscibile, assecondare una serie di aspettative e di convenzioni per essere interpretato da una parte, dall’altra quella di rendere unico e inconfondibile il prodotto facendosi inconsueto e modificandosi, anche travestendosi da “altro genere”. Esempio esasperato di questa tendenza è una recente campagna 1998-99 della Renault per Twingo in cui lo spot maschera il prodotto ora da dentifricio, ora da detersivo per stoviglie, facendo leva su tratti comuni dei rispettivi consumer’s benefits (uno smagliante sorriso derivante non dal potere sbiancante del dentifricio, ma dalla tranquillità di guida nel traffico dell’agile vettura, o la meraviglia degli invitati davanti ad una tavola imbandita, non per la brillantezza delle stoviglie, ma per l’insolito desco allestito nell’auto).

In uno spot del febbraio 2000 per un programma televisivo di varietà della Rai (in cui due squadre di personaggi noti, per lo più dello spettacolo, si fronteggiano in pseudo-gare canore di fronte ad un pubblico effervescente), il conduttore stesso (Alessandro Greco), in camice bianco, garantisce che Furore (è il titolo del programma) è indicato a risollevare lo spirito di giovani, adulti e bambini, quasi come un farmaco, ma non è un medicinale ed è senza controindicazioni. (Lo spot esiste in diverse varianti, una delle quali, del 2000, parla di Furore come di un rimedio per l'udito: al minuto 4.21 del video in link.)

La pubblicità non riesce ad essere in assoluto – e sia nel bene che nel male - originale e innovativa: i suoi contenuti – il discorso sul prodotto - sono prestabiliti, e la sua forma deve risultare riconoscibile, comprensibile e gradevole per ciascun appartenente a target molto vasti. Ciascun target, per quanto ristretto e selezionato, risulta sempre più ampio del pubblico che segue, capisce e apprezza le avanguardie.

Certo: l’obiettivo finale della pubblicità è il consenso. Ma anche la materia prima della pubblicità è il consenso. E il modo migliore per ottenere questo consenso è dire al pubblico quello – e solo quello – che il pubblico si aspetta: provocazioni e campagne-scandalo comprese.

Ma la pubblicità può avere – e ha – una propria peculiare originalità, che risiede nella rielaborazione e amplificazione di una gran quantità di materiali eterogenei […] può realizzare combinazioni spesso sorprendenti, e sintetizzare materiali nuovi […]. (Testa 2000: 30-31)

Questo a conferma che analizzare separatamente una qualsiasi delle componenti o degli aspetti del messaggio pubblicitario significa perdere parte del contenuto del messaggio stesso. Perciò, parlando di linguaggio verbale della pubblicità, sarà spesso necessario presumere, se non accennare ad altre componenti della comunicazione che ne vincolano, più o meno direttamente, la forma.

giovedì 9 luglio 2009

ancora a proposito di regole


Ci ho pensato ancora. Alle regole, intendo.

Non è che non mi piacciano: io amo certe regole.

E' che troppo spesso fingiamo di crederle assolute, ma assolute non sono, mai. Le regole sono convenzioni sociali. Cioè accordi che servono in genere ad uniformare, per agevolare la convivenza delle diversità. Sono mezzi, non fini.

Convenzione =

1. contratto, accordo nel diritto internazionale, accordo fra più Stati su questioni di comune interesse; documento che sancisce l'accordo SIN. Patto, trattato.
2. intesa generale per la quale, in casi di arbitrarietà, si stabilisce di attribuire a un dato fenomeno o complesso di fenomeni determinate caratteristiche:
per c. si stabilisce il verso positivo della corrente elettrica
3. (accezione arcaica) convegno, riunione [oggi convention, più cool ;-)]

4. (spec. al pl.) complesso di schemi, regole tradizionali, consuetudini, spesso intese come contrastanti con l'originalità individuale: infrangere le convenzioni

(dallo Zingarelli 2008)


Per funzionare, le regole devono essere conosciute e condivise. A poco serve che io conosca, rispetti e ami le regole, se mi relaziono con interlocutori che non conoscono, condividono e rispettano le mie stesse regole.

Occorre essere nello stesso "territorio", condividere una
"mappa". Avere cioè le stesse convinzioni. Allora le regole sono rassicuranti, garantistiche.

Prima delle regole, occorre condividere gli obiettivi. Solo allora è possibile allineare agli obiettivi le convinzioni, i comportamenti, quindi gli ambienti, anche modificandoli. Le regole servono appunto a questo: a modificare i comportamenti e gli ambienti in funzione di un obiettivo. Sono strumenti, mezzi. Giusti o sbagliati, utili o inutili, efficaci o non efficaci, solo in funzione del loro uso, non del loro essere regole.

Non c'è uno strumento giusto o efficace di per sé. Se voglio scendere velocemente all'edicola sottocasa per comprare il giornale, probabilmente l'unico mezzo che mi serve davvero è l'ascensore, se c'è. Poco importa se l'aereo è il più veloce.

martedì 7 luglio 2009

perché "nessunaregola"



Ho letto giusto qualche ora fa "L'Opinione" sul giornale locale. Diceva che abbiamo bisogno di regole, che la crisi è frutto della mancanza di regole. Mi sono chiesta che cosa penso di questa affermazione e della conseguente dissertazione, visto che ho titolato questo blog nessunaregola.

... [sto ancora pensando]...

Di solito, per prendere tempo o per chiarirmi le idee su qualcosa, consulto la voce corrispondente sul dizionario.

Regola =

1 andamento più o meno ordinato e costante di un complesso di eventi: di r., normalmente, solitamente (est.) consuetudine, normalità
2 (est.) precetto, norma indicativa di ciò che si deve fare in certe circostanze norma, prescrizione
3 metodo che permette la risoluzione di problemi o l'applicazione di determinati assunti: le r. della grammatica
4 (ling.) nella grammatica tradizionale, norma prescrittiva per parlare o scrivere secondo il modello stilistico dominante in linguistica, ipotesi descrittiva sul funzionamento grammaticale della lingua o sui suoi mutamenti storici nella grammatica generativa, istruzione per assegnare a una frase una descrizione strutturale o per convertire intere sequenze di frase in nuove strutture derivate: r. di riscrittura
5 misura, modo: senza r., senza moderazione
6 il complesso delle norme con le quali generalmente il fondatore disciplina la vita comunitaria e gli obblighi degli appartenenti a un ordine religioso o a una congregazione libro o testo scritto contenente tali norme


[Lo Zingarelli 2008 riporta un settimo significato che tralascio perché troppo contestualizzato.]

Cominciamo dal principio:
Nei significati 1 e 2, la regola è la traduzione di una consuetudine o di un'idea di normalità: è una deduzione, un'opinione.
Nei significati 3 e 4, la regola è uno "strumento" di certezza (tranne che per la grammatica generativa, per cui è un'ipotesi priva di garanzia di verità).
Nel significato 5, regola è limite quantitativo.
Nel significato 6, regola è conditio sine qua non, condizione esclusiva di apprtenenza o esistenza.

Di che regole vogliamo parlare?
Di quelle opinabili che sono desunte da consuetudini? che garanzia di giustizia e verità hanno? Sono semplicemente statistiche. Utili, certo, innegabile. Ma fino a quanto?
Parliamo delle regole certe della linguistica e della matematica? sono applicabili alla vita?
Parliamo delle regole che misurano l'accettabilità degli eccessi di una condotta? su quale criterio si fondano?
Oppure vogliamo parlare delle rigide condizioni di accesso a qualcosa? se sono stabilite da qualcuno, sono condivise e applicabili a tutti?

Non è semplice parlare di regole. In nessuna delle accezioni citate. La regola è sempre una generalizzazione. E, se è vera, ogni generalizzazione esclude eccezioni. Quindi regole ed eccezioni sono incompatibili. Cosa difficile da accettare.

Fatte le regole del mercato, sono immediatamente superate dalle menti brillanti e innovatrici dell'economia [ ;-) ]; approvata la legge, scovato il modo di aggirarla; condiviso un codice, ecco condividere anche il caso particolare di inapplicabilità. Anche le regole della grammatica normativa non sono vere in eterno. Le regole del codice della strada, vanno rispettate, ma che dire quando lo stesso istruttore di guida ti consiglia di non rispettare il limite di 30 per non dare l'impressione di non saper gestire l'auto?

Preferisco parlare di "meccanismi", di "funzionamento", di "convenzioni", "codici". Perché ammettono la diversità, la creatività, la personalizzazione. Costringono ciascuno di noi a conoscere, riflettere, partecipare. Ci invitano a prederci le nostre responsabilità etiche, morali, sui risultati e sulle conseguenze delle nostre azioni. Permettono l'efficienza e l'efficacia, il "pensiero laterale".

Probabilmente l'autore del pezzo su "la Tribuna" di oggi voleva dire proprio questo: servono regole perché non ammetterebbero eccezioni, perché tutti sarebbero uguali di fronte alle regole condivise. Perché solo se esiste una regola che stabilisce l'"uguale" si può punire il "diverso". Ma tutti sappiamo che non funziona sempre esattamente così. Perché nessuno e niente cancellano l'unicità, la specificità, la singolarità: elementi imprescindibili dall'uguaglianza, dalla libertà e dal suo limite.


Visione troppo "umanistica"?




martedì 23 giugno 2009

come si scrive?

Oggi ho trovato un'altra chicca a pagina 172 del libro.

Il maestro magro, ormai non più magro perché di ruolo in una scuola di Torino, legge agli allievi un brano tratto da un ritaglio di giornale:

- “Da Partanna o Santa Margherita Belice, unico è lo spettacolo che ti si proietta allo sguardo! Tu resti conquiso e sospiri quell’incontro e lo affretti, quando, nel perenne divenire degli eventi, brami una stasi alle diuturne fatiche per molcire le ambasce del cuore o per arrestare, ancora un istante, il vorticoso corso della vita!” Si fermò un attimo: “Bello?”
- “Sì, signor maestro!”
- “Bruttissimo!” troncò lui ripiegando l’articolo ritagliato da una vecchia copia del “giornale di Sicilia”. “Ma come: vi ho spiegato mille volte che non è così che si scrive! … scrivete semplice, semplice, semplice. Tagliare, tagliare, tagliare!”»

Gian Antonio Stella, Il maestro magro, Superpocket R.L.Libri srl, Milano 2007



lunedì 22 giugno 2009

pubblicità maestra di lingua

Oggi ho tovato qualcosa di interessante.
Sto leggendo Il maestro magro di Gian Antonio Stella, un romanzo ambientato nell'Italia del dopoguerra, popolato di personaggi umili e animato da episodi drammatici, ironici, divertenti.


A metà di pagina 62, intravvedo la parola "pubblicità" che poco ha a che fare con le storie raccontate. Torno allora indietro di tutte le righe necessarie a capire il senso di questo quasi anacronismo e rileggo con più attenzione. Il maestro, messa insieme la sua classe di analfabeti e ottenuto lo stipendio ridotto a cui ha diritto per una vecchia legge forse fascista, racconta ad Ines:
-Sai cosa faccio spesso? Uso i giornali. Ma i miei scolaretti, anche quelli di sessant'anni come la suocera di Nane, sono per un verso adulti, per un altro bambini. Parlano solo il dialetto, conoscono solo a orecchio poche parole di italiano, non ascoltano la radio... Così finisco per ripiegare su testi della pubblicità. Gli unici che, per vie misteriose, entrano anche in casa loro. Gli unici di cui conoscono tutte le parole.
- [...]
- Ieri ho fatto il dettato con l'Ovocrema. Hai presente quella pubblicità con l'ovetto che ha la corona da re, il monocolo, il panciotto e fuma il sigaro mostrando un anellone che luccica? Vorrei vedere la faccia di uno che la vedrà in qualche vecchio ritaglio nel Duemila! "Il signor Uovo è diventato ricco a forza di essere caro e vi guarda dall'alto in basso. Abolite le uova e provate Ovocrema che sostituisce otto rossi d'uovo e costa poche lire. Torte, ciambelle, budini, creme e squisite tagliatelle." Non ti dico il dibattito. Col Moro che bestemmiava, "sacranòn", che lui le uova delle sue galline le vende per una miseria e poi le ritrova al mercato di Porto Tolle (le sue uova! le sue uova!) [...] Insomma, del dettato, della grammatica, di "come" si dovesse scrivere non interessava a nessuno.
da Gian Antonio Stella, Il maestro magro, Superpocket R.L.Libri srl, Milano 2007
Assaggia un po' di Stella nel suo primo romanzo, leggi il suo forum, guarda le immagini d'epoca e i video Luce.